Ale Guzzetti: scultura e suono dall’arte elettronica alla robotica

di Alice Traforti

L’innovazione tecnologica è la cifra stilistica della nostra epoca, ma spesso la velocità del progresso supera di molto il tempo necessario per viverne il conseguente mutamento. Ecco che l’arte può essere un ponte tra il tempo dell’esistenza e quello della scienza.
Tra le ricerche che operano in questo settore, vi presento oggi il lavoro di Ale Guzzetti(Varese, 1953) che, unitamente a quello pioneristico di Peter Vogel (Friburgo, 1937-2017) e agli esiti più recenti di Fausto Balbo (Cuneo, 1970), si trova esposto fino al 7 gennaio 2020 nella mostra ARTE E SUONO. Opere interattive e sonore dall’elettronica alla robotica, a cura di Monica Bonollo e Simona Zava, alla Rocca Roveresca di Senigallia.
Ciò che accomuna i 3 artisti è un concetto di interattività tra opera e spettatore basata sul suono musicale che si rifà al linguaggio della comunicazione verbale che regola le relazioni tra persone e, in questo caso, tra persone e cose, sculture dotate di una propria espressione sonora che pone lo spettatore di fronte a manifestazioni inattese.
Con lo stesso approccio ludico, la ricerca di Ale Guzzetti si estende fino alle complessità della robotica nell’intento di dare vita alle cose dell’arte per tessere sempre nuove connessioni tra artificio e natura.

Caro Ale, com’è nato quel tuo particolare interesse per il suono, che ti ha portato a realizzare le prime sculture sonore negli anni ’80? Quali erano allora i tuoi riferimenti?
Ale Guzzetti: Ho frequentato l’Accademia di Brera e contemporaneamente ho studiato composizione, interessandomi alla musica elettronica. In questo campo ho fatto ricerche con Goffredo Haus al Politecnico di Milano, poi presso il CSC dell’Università di Padova.
Ma ho sempre tenuto separati nella mia attività il campo figurativo e quello musicale sino a quando, in una mostra a metà anni ’70, ho visto un piccolo pezzo di Peter Vogel che mi ha rivelato la possibilità di far convivere scultura e suono, e soprattutto di rendere interattiva l’opera.

Com’è avvenuto poi il passaggio dall’elettronica alla robotica?
Ale Guzzetti: Rendere sonore le sculture, reattive al pubblico, in qualche modo sottende la voglia di dar vita all’opera, dall’atto creativo all’atto “creatore”. Se Michelangelo è arrivato a gridare alla sua scultura “perché non parli?”, il passo successivo è sicuramente quello di chiedere al proprio lavoro “perché non ti muovi?”… La robotica è lo strumento ideale per dar vita alle cose.

Quali erano i maggiori ostacoli nell’operare in questo campo 40 anni fa? Che cosa avresti voluto avere nel tuo laboratorio?
Ale Guzzetti: Qualche gallerista trovava impraticabile avere opere che richiedevano l’uso di corrente, ma non tutti sanno guardar lontano… e in qualche manifestazione qualcuno protestava perché i miei suoni disturbavano il silenzio sacrale degli altri lavori (sigh!). Ma devo dire che, in generale, sono stato molto fortunato: ho sempre incontrato persone sensibili al nuovo, all’inconsueto, e queste subito si sono appassionate al mio lavoro e spesso lo hanno anche sostenuto.
Circa gli strumenti, ai tempi bisognava costruirsi i circuiti, saper riparare i propri lavori. Non esiste a tutt’oggi un restauratore di opere elettroniche, e molti componenti sono ormai obsoleti e introvabili. Ai tempi mi sarebbe piaciuto avere una stampante 3d industriale per materializzare le idee in tutte le sue varianti.

E che cosa vorresti invece nel tuo laboratorio di oggi, immaginando l’arte tecnologica del futuro?
Ale Guzzetti: Oggi nel mio laboratorio ho tutti gli strumenti più avanzati (compresa la stampante 3d di cui sopra!). Mi piacerebbe un sistema di lettura delle onde cerebrali che direttamente registri e concretizzi in un disegno tutte le idee che mi passano per la testa.
Ma forse questo strumento lo possiedo già: il più potente computer mai esistito, il cervello, che con il sistema nervoso, attraverso il braccio e la mano, può su di un foglio di carta fare tutto ciò! Forse con gli anni più che gli aggiornamenti tecnologici (che restano meri strumenti), cercherò di preservare le capacità cognitive e creative con carta e matita.

La relazione tra automatismo e consapevolezza nel comportamento umano, ma non solo, è uno dei temi su cui ti piace giocare. Ci racconti la tua idea?
Ale Guzzetti: Se la consapevolezza è la conoscenza di qualcosa che esiste, l’interattivitànelle opere può favorire questo processo, cioè aiutare a capire, a meglio comprendere cose e persone che ci circondano. Un’opera statica spesso ci relega all’automatismo visivo (questa cosa l’ho già vista là, quest’altra la conoscevo, quest’ultima l’ho vista in un libro…). Un’opera dinamica ci costringe all’attenzione perché muta nel tempo e, per dirla come Stern, ci porta alla consapevolezza di essere consapevoli.

Parlando invece di confine tra naturale e artificiale: l’artificiale è ormai diventato naturale?
Ale Guzzetti: La tassonomia di Linneo penso vada aggiornata. L’artificiale è ormai da considerare, dopo il regno animale, minerale e vegetale, il quarto regno del nostro mondo.

Come reagisce il pubblico alle tue provocazioni? Pensando per esempio al progetto Techno Gardens, con nano-sculture robotiche auto-alimentate a luce solare e disseminate a popolare i più diversi ambienti naturali del pianeta, immagino che ogni contesto abbia risposto in maniera diversa. Oppure no?
Ale Guzzetti: Non sono mai state vissute come provocazione in nessuna parte del mondo. Certo le reazioni sono state diversificate.
Ad esempio, nei paesi del Golfo Persico una certa diffidenza è sempre sottesa e ottenere permessi è spesso difficoltoso. In Kenya, in un villaggio Masai, gli abitanti erano dapprima spaventati da questi micro organismi artificiali, poi li hanno adottati come animali domestici. In Giappone, nei Giardini Zen, sacri e intoccabili per non rovinare la loro perfezione estetica e simbolica, i monaci custodi dei templi si sono molto divertiti all’idea di microrobots vaganti per i solchi dei giardini di pietra e mi hanno derogato ogni veto.
C’è da dire che, contrariamente alla nostra cultura occidentale dove nella letteratura e nel cinema il robot è visto come una minaccia, una macchina che a un certo punto evolve e si ribella all’uomo, in Giappone la visione è positiva. Il robot è un amico, spesso un esoscheletro pilotato da adolescenti che aiuta a combattere i cattivi, aiuta a prendere coscienza dei problemi del mondo.

Nel 1991 sei stato premiato nella sezione Interactive Kunst di Ars Electronica a Linz, e oggi sei docente all’Accademia di Belle Arti di Brera, con il polso della situazione su uno spaccato veritiero delle nuove generazioni. Rispetto alle tue aspettative di allora e di oggi, che cosa pensi delle nuove ricerche in ambito tecnologico? L’approccio è mutato o si battono strade in qualche modo già percorse?
Ale Guzzetti: Ovviamente la tecnologia, evolvendo, fa evolvere anche il lavoro artistico di coloro che ne fanno uso. Si è passati da un’interattività per così dire intima, tra te e l’opera, ad un’interattività ambientale, che coinvolge spazi enormi, piazze, città. Il video mapping, la realtà virtuale, ma anche artisti che usano la microbiologia, o operano su scala astronomica, fanno pensare a nuove strade da percorrere. Ovviamente chi fa uso della tecnologia più avanzata senza idee nuove, percorre il già percorso, aggiornando soltanto l’hardware.

Oggi dove trovi invece le principali fonti di ispirazione e confronto?
Ale Guzzetti: Devo dire che nel tempo ho abbandonato l’idea narcisistica di “ricerca artistica” individuale. Quanti colleghi si esprimono con: la mia ricerca è…
Il mio lavoro spesso si avvale del supporto di specialisti di software, robotica, artigiani di ogni campo. Sono entrato nel mondo della “ricerca” più vicina al mondo scientifico, dove si deve parlare un linguaggio non personale, ma condivisibile e condiviso. Quindi lavorare con altre menti ed altre mani porta a un continuo confronto e genera ispirazioni nuove e spesso imprevedibili.

Quali sono i tuoi progetti e programmi per il prossimo futuro?
Ale Guzzetti: Sto lavorando a grossi cori: uno per 50 voci, letteralmente 50 bocche cantanti. Un secondo, composto da dieci busti con occhi robotici messi in verticale (lo scrolling porterà a nuove anatomie?) con telefonini che creano una cacofonia di suonerie.
Qualche mostra in atto a chiusura 2019, oltre la grande mostra su Arte e Suono presso la Rocca di Senigallia a cura di Monica Bonollo e Simona Zava, dove mi vedo affiancato dal mio inconsapevole mentore Peter Vogel e dalle installazioni sonore di Fausto Balbo.
Una mostra presso la Galleria il Chiostro dedicata al 50 del primo uomo sulla Luna. Ho ricostruito l’impronta di Neil Armstrong in litofania e un selenita che lamenta all’astronauta di non aver usato lo zerbino. Poi una mostra dedicata ai volti segreti della Gioconda presso il Museo Parisi Valle di Maccagno. Qui un piccolo robot dipinge una Gioconda animata che parla, in perfetto toscano, dei suoi passaggi per le valli del luogo. Devo dire che in queste due ultime manifestazioni presento opere un po’ inconsuete, ironiche.
Ma in questo periodo sto pensando, parafrasando Goya, di realizzare dei “Capricci”, o meglio tutto ciò che mi passa per la testa senza vincoli o continuità alcuna. Un po’ di Zbrush, un software di modellazione 3d che mi aiuta a visualizzare le idee, e infornata di stampante 3d che me le concretizza. Un’aggiunta di un pizzico di schede Arduino e… il piatto è pronto!

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